ANTRO DEL MINOTAURO
Piccola biografia in forma di Poetica
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- Che cosa ti offrì la scuola dal punto di vista formativo?
- Ebbi il privilegio di essere alunno di insegnanti preparati, entusiasti e per di più artisti valenti. Angelo Pusterla, per esempio, fu lui a darmi il gusto per la scultura; poi il noto ceramista Renzo Igne, Adriano Filippi, Guglielmo Marthyn, per fare solo alcuni nomi. Il periodo scolastico si svolse senza intoppi, anzi lo percorsi con entusiasmo, e, per così dire, fu il periodo più felice della mia vita. La fase terminale degli studi lasciò invece un vuoto nell’anima, effetto di un profondo disorientamento. La mia acerba percezione di studente della storia dell’arte si era progressivamente preparata ad accogliere le correnti artistiche denominate simbolismo, futurismo, espressionismo, surrealismo … forse il dadaismo … ma di lì in poi si apriva un baratro in cui né la mia sensibilità educata, né le tecniche apprese potevano permettermi di comprendere e assimilare onestamente, sinceramente, una sequela di opere la cui artisticità mi sfuggiva completamente e che aveva nel “critico” il suo indispensabile giudice e interprete.
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origine e causa nei sogni, nel delirio, nelle allucinazioni: l’“astrattismo” (quasi che con la prospettiva l’astrazione matematica e geometrica non avesse già fatto massicciamente ingresso nel campo dell’arte); l’“action painting” coi suoi tubetti spremuti all’insegna del consumo e dello spreco; l’arte “concettuale” (quasi che potesse emulare gli svolgimenti della più alta filosofia e che d’altra parte potesse darsi un’arte priva di concetti sottostanti); fino a coltivare ostinatamente l’invenzione di “performances” sempre più inverosimili: dalle tele tagliate ai barattoli in libertà, per dirla in breve. Ogni generazione di artisti produceva un “ismo” o secerneva un’arte sempre più “povera” e incomprensibile. Ciò produceva per compensazione la massiccia irruzione delle fatiche del critico per garantire in qualche modo la continuità della fruizione dell’opera d’arte. Il critico si ergeva tra me studente e l’opera d’arte che non ero più in grado di intendere direttamente sebbene proprio da una scuola specifica avessi ricevuto un’educazione sistematica nel campo oggetto della critica: l’arte, appunto. Le mie sole forze non erano in grado di affrontare la complessità in cui si erano ingolfate le più curiose e gratuite espressioni artistiche. La mia preparazione scolastica invece di avvicinarmi agli ultimi tesori dell’arte mi ci allontanava recisamente. L’arte mi sembrava essersi sottomessa all’espressione di una gratuita schizofrenia.
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- Col tempo approdai ad una considerazione di natura, se vogliamo, storico-sociologica. Mi parve di comprendere che il ruolo, la funzione dell’arte figurativa, in specie la pittura e la scultura, fossero definitivamente tramontati. Un declino inesorabile dovuto all’irrompere della “velocità” e della “macchina” nella vita quotidiana in seguito alla rivoluzione tecnologica del XIX° e XX° secolo. In pochissimo tempo si erano imposti nuovi ritmi di vita e nuove modalità di percezione e, per conseguenza, un diverso modo di fruire l’arte che è specchio del modo di vivere. Erano sorte altre arti che avevano assorbita molta “tecnologia”, e come al tempo della rivoluzione della stampa, avevano risucchiato il posto di sua competenza, come il torchio aveva ingoiato gli amanuensi. Già l’invenzione della fotografia aveva inferto un durissimo colpo alle arti figurative, poi il cinematografo aveva compiuto il trapasso in modo definitivo. Al seguito i fumetti, la pubblicità, le riviste patinate, la televisione avevano attirato nel loro seno le migliori menti in grado di esprimersi artisticamente. I loro artefici parlavano direttamente ai fruitori d’arte diventati legione, gente, popolo, massa.
- Sì, il cinematografo ne è il maggiore esempio mi pare!
- Infatti: il cinema ha una capacità affabulatoria incommensurabilmente più ricca della pittura e della scultura: l’evento narrato si dilata a volontà nel tempo e nello spazio; può essere contemplato al microscopio o al telescopio. Non ha bisogno di mediazioni per raggiungere il cuore e la mente dello spettatore: piace o non piace, convince o non convince: dispone di mezzi schiaccianti. Il botteghino non può contare sul sermone del critico per uno spettacolo incomprensibile e ributtante. Se non per pochissimi eletti cui è possibile, girato l’angolo, cambiare palcoscenico e ricrearsi diversamente. Il fondale di una sala cinematografica ha sostituito le pareti delle navate delle cattedrali, dove un tempo conveniva il popolo analfabeta: il linguaggio pirotecnico del critico sarebbe parso quanto meno uno scherzo di cattivo gusto. Il cinema inoltre raccoglie da solo il contenuto vivo di tutte le arti, includendo in sé anche la musica. L’arte figurativa, perciò, era morta di morte naturale o stava morendo. La sua era una lenta agonia e la reazione degli artisti figurativi, cui il terreno mancava sotto i piedi, assumeva i contorni di un accanimento terapeutico: da questo dipendevano le convulsioni di Pollock, l’isterismo metodico di un Fontana, l’arte concettuale sconfinante nei barattoli innominabili di Piero Manzoni. L’arte figurativa, un tempo regina delle arti, scadde, perciò, ad “Arte Minore” come lo sono per comune e tradizionale ammissione la ceramica, l’oreficeria, il mobilio, ecc.. Con molta umiltà poteva tutt’al più rientrare nelle case abbassando il capo per non urtare lo stipite della porta e diventare oggetto di arredamento: adornando una parete in forma di quadro, occupando un angolo vuoto su un elegante piedistallo nelle veci di una scultura: allo stesso titolo di una specchiera, di un servizio da tè in porcellana, di un lampadario ecc... L’artista che aveva qualcosa da dire e che voleva proclamarlo alto nel mondo avrebbe deciso di avvicinarsi ad altre arti, quelle grosso modo anzidette.
- E allora come tornasti alla scultura o al tuo connubio di scultura e pittura?
- Lentamente si fece strada un pensiero nuovo. In antitesi alla vita sociale sottomessa alle macchine, al petrolio, al consumo frenetico, alle discariche di terra, di cielo, di mare: il deplorevole “cul de sac” in cui è finita la rivoluzione tecnologica, mi sensibilizzai alle argomentazioni di chi auspicava un ritorno a ritmi antichi, agli elogiatori della lentezza, alla fecondità del lavoro artigianale che trapassa nell’opera d’arte. Tutto sommato, la figura dipinta o tridimensionale, di per sé statica, meglio si presta alla contemplazione e alla meditazione: a soddisfare esigenze filosofiche od estetiche frutto di una maturazione interiore che aveva richiesto anni durante i quali mi era stata compagna una riflessione assidua sul nostro multiforme Rinascimento.
- Le tue meditazioni, mi pare, avrebbero potuto sfociare più verosimilmente verso un’arte di contestazione. Non ti sembra che l’approdo alla “meditazione” – date le premesse – riveli una certa timidezza, una rinuncia idealizzata, sublimata?
- Esisteva, è vero, ed esiste un’arte di contestazione che elegge il brutto e il volgare a strumento di denuncia, in risposta all’insensatezza, alle contraddizioni più flagranti che spingono talvolta a chiederci se la vita stessa sopravvivrà sul pianeta. Una denuncia espressa sotto forma di “provocazioni” - esibite senza arrossire alle Biennali. A mio modo di vedere non sortivano e non sortiscono altro effetto se non di illudere e tacitare l’aspirazione ad andare “oltre” degli artisti. Una denuncia che già siede comodamente in tutti i musei di arte contemporanea. Un’arte che si è rivolta contro se stessa e masochisticamente si compiace di punzecchiare, insultare, avvilire un pubblico attonito e muto: situazione in cui è difficile intendere chi sia più disorientato o rassegnato: il pubblico o l’artista? Mi sembrò e mi sembra tuttora una strada ancora più rinunciataria e mistificante.
- Che mistifica che cosa?
- La nostra impotenza. Trovai perciò un equilibrio, forse provvisorio e limitato, ma ai miei occhi non equivoco, riscoprendo le immagini che mi avevano nutrito e che appartenevano ad un mondo di valori semplicemente umani, meno meccanizzati e tecnologicamente drogati, non sottomessi all’imperativo delle mode. Un mondo più ristretto ma secondo me più consono alla riscoperta della dimensione spirituale, nel senso goethiano del termine, detto con linguaggio di “destra”; o al rigetto dell’alienazione, in senso marxiano, detto con linguaggio di “sinistra”, sia pure nel modestissimo perimetro soggettivo e personale. Fu così che tornai allo studio delle forme classiche e meno classiche, quelle ritenute superate da chi sostiene esclusivamente la logica, non più dell’arte, ma del volto più deteriore del mercato, quello fondato sulla perpetua e fatua innovazione, che ne soffoca periodicamente i promotori e ancor più gli artefici. Da loro trassi ispirazione e cercai di animarle facendole mie con semplicità non finta. In talune ho mischiato pittura e scultura: soggetti che varcano il confine della figura per diventare corpi emergenti, e spero, viventi di vita propria.
I lavori di Alberto Schiavi, dopo una lunga, sofferta e tribolata gestazione, videro dunque la luce dal 1990 ad oggi tra l’Emilia e il Piemonte, in numerose esposizioni e mostre cittadine, a Mirandola, Modena, Carpi, Torino, Castellamonte, e si spinsero talvolta in terra di Francia, a Marsiglia e a Bordeaux.